domenica 21 febbraio 2010

Dylan Dog

Nell’immensa varietà che compone la scena del fumetto italiano, forse “Dylan Dog” è l’unico ad essere giustamente considerato il legittimo successore di “Tex”: esso infatti, creato da Tiziano Sclavi nel 1986, è diventato con rapidità schiacciante un vero e proprio cult nell’arco di trenta numeri o poco più. Le ragioni del suo sconfinato successo che attraversa le barriere generazionali dipendono sicuramente dalla maestria del suo autore, ma anche dalla forza e dall’impatto sociale dei suoi personaggi, che consentono al fumetto di mostrare al lettore un dinamico spaccato della nostra realtà sociale.
Sclavi e i suoi collaboratori hanno fatto in modo già dall’inizio di dare al fumetto un’impronta horror-splatter, ma a questo abbozzo, che per lo più notiamo nei primi numeri, anche per le “inquadrature” con cui l’autore ci mostra personaggi e situazioni (illustrazioni degne di un vero e proprio regista) viene affiancato anche un elemento vincente che renderà quest’opera un vero e proprio capolavoro. Dylan Dog non è solo un cercatore di mostri: è ‘l’indagatore dell’incubo’. L’uomo cui rivolgersi quando ogni altra indagine regolare è inefficace. Lo «strano» è dunque il pane quotidiano del protagonista che non cerca mai di giudicare il caso affidatogli. Non c’è netta separazione fra regno dell’orrore (mostri, demoni, fantasmi, ecc.) e realtà (assassini, maniaci, psicopatici ecc.). Dylan sa che c’è qualcosa che va aldilà della ragione (il suo “quinto senso e mezzo”), della semplice procedura investigativa di Scotland Yard, ma non la etichetta. Il confine fra reale e orrore è dunque sottile e i cattivi, a volte mostri, ma spessissimo semplici uomini, ci appaiono come simboli di mali sociali. Povertà, abbandono, violenza subìta o inferta per puro gusto sadico prende forma di mostri, streghe, zombie. In poche parole incubi. Neppure Dylan è immune dal male del mondo. Spesso nelle storie è coinvolto personalmente dal male che combatte, del resto anche lui come noi è un eroe imperfetto. Ha attraversato una zona d’ombra del suo animo. Egli è, infatti un ex alcolista ora astemio e per di più vegetariano. Sinonimo, probabilmente, del fatto che non si può comprendere l’oscurità senza esserci passati. Dylan cerca nei suoi casi di risolvere problematiche che sono sì al di fuori della sfera del reale, ma che ci conducono a veri problemi che non hanno volto materiale, come nel recentissimo “Mater Morbi” (n.280) nel quale affronta uno dei mali più oscuri e odiati dall’uomo: la malattia. Prendendo forma e persino una personalità, il male apre la strada a infinite riflessioni sulla realtà che ci circonda, spesso crudele e difficile come appare nei fumetti. Dylan cerca di risolvere al meglio la situazione volta per volta, ma una vera risoluzione non c’è mai. Si può solo, alla fine di ogni storia, percepire parte di una verità più grande di sé, quella della vita. Anzi le verità. Poiché non vi è una sola risposta, ma molteplici e spesso incoerenti. Come nel mondo reale.
L’amore è un altro filo conduttore di tutte le narrazioni: spesso, infatti, le bellissime donne che Dylan incontra nelle sue storie finiscono a letto con lu, ma non si pensi che sia dongiovannismo ad animare le azioni del protagonista di questo fumetto. Egli cerca uno scampo dalla realtà schiacciante che lo circonda, il raggiungimento di attimi di intima serenità nel caos della realtà. L’amore è simile ad un attimo di raccoglimento religioso che, come spesso accade, alla fine cede il passo alla realtà che comporta la separazione delle strade di Dylan e dei suoi amori.
Un’altra figura chiave del fumetto è senza dubbio il fido assistente di Dylan: Groucho. Esattamente come il suo capo assomiglia a Rupert Everett, Groucho è identico sia caratterialmente che fisicamente al comico Groucho Marx, ciò consente agli autori di dare alla vicenda un respiro comico, respiro che Groucho ci consente di tirare ogni volta che per una ragione sempre banale e tuttavia sempre ponderata e geniale, azzarda rocambolesche battute di comicità spicciola, ma quasi per contrasto con la storia portante, sempre apprezzata dal lettore che non può che affezionarsi a questo personaggio chiave della storia.
Senz’altro quest’opera, entrata ormai nell’immaginario collettivo, ha in sé contenuti e riferimenti che continuamente gli autori, da sempre capaci di creare storie nuove e appassionanti, fanno in onore di artisti di rilievo del calibro di De Andrè, i quali testi vengono spesso citati in opere magistrali come “Memorie dell’invisibile”, ma ancora più frequenti sono i rimandi a libri, film e quadri cari a Sclavi che ora cura solamente le storie di una delle sue creazioni più riuscite che non ha mai perso lo slancio che la caratterizza. Questo è uno dei motivi che porteranno Dylan Dog a diventare una vera e propria opera d’arte nell’universo della letteratura a fumetti contemporanea, oltre che per il significativo e determinante lavoro dei suoi disegnatori.

STEFANO CARBONE

sabato 20 febbraio 2010

Camillorè


Davide Ceddia (voce), Marco Malasomma (batteria), Giampiero Fortunato(chitarra), Roberto Baratto (tastiere) e Marco de Michele (basso), in arte Ciddì, il Mala, Jeanpierre, U' Baratt e Peblo sono i Camillorè.

Gli amanti del genere folk, di certo avranno già avuto modo di apprezzarli vista comunque la frequenza delle date del gruppo barese che già da diversi anni spopola sia al sud che al nord.

A partire già da febbraio infatti, saranno impegnati con diverse date italiane e non, tra cui Siena il 20 febbraio, Roma il 23 aprile, Bari, 8 maggio, Durazzo 15 e 16 maggio e Milano l'11 giugno.

Abbiamo chiesto loro di spiegarci come nascono i Camillorè e da cosa traggono ispirazione.




"I Camillorè nascono qualche luna Camillesca fa (l'equivalente di 3-4 anni) da alcune idee,speranze e passioni di diverse anime vaganti del regno di Sghisghigno.
Musicanti e cantautori, mascalzoni e calzolai sognatori, guidati dal Principe de Curtis, detto Totò,dal suo socratico Kazoo e dal Poeta Eduardo si misero in marcia nel bosco delle audaci e folli chitarre dell'ironia...SCRIVENDO E BRINDANDO ALLA FELICE FANTASYA."




Una vera e propria filosofia che potrete apprezzare

durante i loro spettacoli dove si esprimono in maniera teatrale utilizzando eccentrici costumi, cartelloni, coriandoli, manifesti e quanto più possa avvicinarsi alle idee che esprimono nelle loro canzoni dai testi decisamente impegnati seppur espressi sempre in chiave ironica.
A proposito dei loro spettacoli, i Camillorè ci spiegano:


il nostro spettacolo propone oltre due ore di musica rock/folk jazz ambientata nel “surreale” mondo di Sghisghigno, il regno dei sogni e della fantasia.
Si tratta di Teatro-Canzone d'autore, ricco di momenti estremamente allegri,alternati ad
atmosfere grottesche e poetiche con lo scopo ben preciso di far pensare,sognare e coinvolgere il pubblico, rendendolo parte integrante dello show.
Il favoloso mondo di Sghisghigno e dello strambo Re Camillo,attraverso piccole ma divertenti scenografie coloratissime e i metaforici testi delle nostre inedite canzoni,miscelano leggende di inventati personaggi con i riferimenti ai grandi del Teatro e del Cinema italiano come Eduardo,Totò e Fellini.
In 4 anni di attività abbiamo avuto diversi riconoscimenti a riguardo, premi e collaborazioni.
Con un album ufficiale all'attivo dal titolo“Non Mordete le ali alla cicogna”, attualmente siamo impegnati in un tour con numerosissime date.




E difatti di premi e riconoscimenti ce ne sono stati davvero tanti. Per citarne solo alcuni, i Camillorè sono stati vincitori del Premio Ivan Graziani 09, Martelivepuglia 09 ,Festival FDC 09, PremioMomart MEI 09, AritmiaMediterranea 08 e Rocktober 08; premi della critica: Premio Totò 09, PremioCriticaAndria 08, PremioAlexBaroni 07, PremioCritica A.Daolio 07, Premio MusicArt
BollentiSpiriti 06 e vantano numerose collaborazioni tra cui Roberto Ottaviano, Livio Minafra,Fabio Losito, Alfredo Colella, Simone Martorana e l'apertura alla Bandabardò al Giovinazzo Rockfestival del 2009.

Insomma l'ascesa del gruppo barese si prospetta rosea e sempre più rapida, visto soprattutto il riconoscimento e la partecipazione del pubblico che ormai ha identificato lo spettacolo dei Camillorè come un vero e proprio momento di festa accompagnato da un'ottima musica e da tanto divertimento.

Per maggiori informazioni su date, acquisto di cd o per poter ascoltare alcuni i loro brani e visionare i video visitate il loro sito internet http://www.camillore.it/ o ancora www.myspace.com/camillore o http://www.youtube.it/camilloretv


VALENTINA CROCITTO

Nine


NINE (id., USA-Italia 2009) di Rob Marshall con Daniel Day-Lewis, Marion Cotillard, Penelope Cruz, Judi Dench, Nicole Kidman MUSICAL - Torna dopo quattro anni da “Memorie di una geisha” Rob Marshall, regista dell’acclamato “Chicago”, e lo fa con questo omaggio all’Italia chiamato “Nine”, una ideale prosecuzione del felliniano “8 e ½”, in attesa di imbarcarsi sul galeone del quarto episodio di “Pirati dei Caraibi”: le premesse per un successo di critica e di pubblico ci sono, ma non è tutto oro quello che luccica.
Guido Contini (Daniel Day-Lewis) è un acclamato regista che nell’Italia degli anni ’60, giunto a dover dirigere il suo nono film dal titolo “Italia”, si trova in profonda crisi creativa: a distanza di pochi giorni dall’inizio delle riprese non ha infatti ancora un copione. Nel cercare di ritrovare se stesso e l’ispirazione perduta si troverà a fare i conti con i problemi che gli riserva la realtà, come la crisi con la moglie Luisa (Marion Cotillard), la difficile gestione del rapporto con l’amante Carla (Penelope Cruz) e le discussioni con il produttore Dante (Ricky Tognazzi) e la costumista Lilli (Judi Dench), ma anche con il difficile confronto tra il suo ego e le donne che gli hanno segnato la vita che provvidenzialmente rincontrerà o ricorderà in questo arduo percorso. Oltre a Luisa, Carla e Lilli ci sono infatti anche la defunta madre (Sophia Loren), la prostituta Saraghina (Stacey “Fergie” Ferguson) e la musa di tanti film Claudia (Nicole Kidman), tutte amate in qualche modo da quest’uomo ingordo di vita e bramoso di avere tutto quanto possibile da essa sino a consumare chi gli sta intorno, come gli farà presente la moglie.
Nonostante l’interessante premessa di indagare il mondo interiore e non di un artista in crisi con il microcosmo umano che gli gravita intorno e un cast da grandi occasioni, il film si perde in svariate pecche: da numeri musicali non sempre coinvolgenti – i migliori “Be Italian” di Fergie, “Cinema Italiano” di Kate Hudson e “Take it all” della scialba Marion Cotillard, nominata agli Oscar come miglior canzone- a un certo piattume nella descrizione del nostro paese che risulta nulla più di uno sfondo da cartolina con sottofondo di qualche canzonetta, ad una scelta non sempre felice degli attori, su tutti Sophia Loren e Nicole Kidman dai volti ormai troppo artefatti per risultare attrici conivolgenti. Note positive invece in chi forse non ci si sarebbe aspettati: la cantante Fergie dei Black Eyed Peas diventa una convincente prostituta Saraghina, colei che diede al protagonista i primi rudimenti sull’amore, e inscena un sensuale e riuscito numero musicale sulla seduzione, Kate Hudson si dimostra anche efficace cantante e ballerina oltre che abile attrice di parti brillanti e Daniel Day-Lewis sfodera carisma e sessappiglio e se la cava egregiamente nei numeri musicali che gli sono stati affidati, nonostante ripetute dichiarazioni di incapacità a cantare. Un’occasione mancata insomma ma anche un invito a non perdere la speranza nel genere musical poiché i talenti non mancano, il difficile è trovare bravi autori.

Voto: 5/10

CLIZIA GERMINARIO


giovedì 18 febbraio 2010

An Education


AN EDUCATION (id., Uk 2009) di Lone Scherfig con Carey Mulligan, Peter Sarsgaard, Dominic Cooper, Rosamund Pike, Alfred Molina, Cara Seymour DRAMMATICO – Prima prova come sceneggiatore di Nick Hornby, scrittore inglese di successi come “Febbre a 90°” e “Un ragazzo”, entrambi diventati apprezzati film con protagonisti rispettivamente Colin Firth e Hugh Grant, che si cimenta con una storia autobiografica tratta dalle memorie della giornalista britannica Lynn Barber.
La sedicenne Jenny Miller (Carey Mulligan), brillante e diligente studentessa nella Londra del 1961, incontra in una piovosa giornata il trentenne David Goldman (Peter Sarsgaard), che le offre un passaggio sino a casa vedendola sotto l’acqua con il suo violoncello. I due non tarderanno ad iniziare una frequentazione inizialmente avversata dai genitori di lei, che mirano a mandare la figlia a studiare lettere ad Oxford come è anche suo desiderio, e poi pienamente accettata, grazie anche alla rete di bugie che i due amanti tesseranno ansiosi di stare insieme: lei infatuata di lui e della bella vita che le fa man mano condurre insieme al suo collega in affari Danny (Dominic Cooper) e alla di lui fidanzata Helen (Rosamund Pike) e lui attratto dalla sua innocenza e intelligenza. La situazione non tarderà a precipitare, evidenziando i lati oscuri e poco chiari di Danny che metteranno presto in ombra i gesti gentili e la generosità del suo rapportarsi con la giovane, che verrà persino portata a Parigi per il suo diciassettesimo compleanno data la sua passione per la città e il francese.
Iniziato come una commedia, il film sprofonda sempre più in un’atmosfera drammatica che si risolleva solo nello stridente finale, non certo in linea con le premesse fatte e i toni scelti in precedenza e che finisce per rovinare un’opera tutto sommato discreta, ma che avrebbe potuto essere molto di più anche grazie all’apporto di un cast ben scelto su cui spicca il David di Sarsgaard. Un successo quindi in parte immeritato sul fronte degli Oscar, ai quali concorre per le statuette di miglior film, il che sembra francamente eccessivo, miglior sceneggiatura non originale e miglior attrice protagonista (l’acerba ma promettente Mulligan, che sembra un misto tra Maggie Gyllenhaal e Katie Holmes). Nonostante quanto detto il film risulta godibile e una valida alternativa all’attuale tendenza del cinema, soprattutto americana, di confezionare film ricchi di effetti speciali e poveri di sostanza.

Voto: 7/10

CLIZIA GERMINARIO



La Muta


La condizione della donna nei Paesi occidentali ha subito negli ultimi decenni un radicale mutamento ed anche l’opinione pubblica guarda al problema da una prospettiva completamente diversa da quella del passato; la questione però persiste ed è divenuta più pressante soprattutto nei Paesi di religione islamica, dove si è ancora molto lontani dalla parità, portando gli intellettuali locali ad un bisogno di raccontare vicende drammatiche e non sempre a lieto fine, che, mentre a noi sembrano narrare un mondo alieno, sono per loro tragicamente normali. Djavann Chahdortt è una di questi autori.
Nel suo romanzo ha condensato in sole 124 pagine la triste storia di una quindicenne condannata alla pena capitale, che nei giorni precedenti l’esecuzione decide di scrivere la sua storia: il racconto di Fatemeh narrerà una sconvolgente sequenza di eventi e di violenze non solo su di lei, ma anche su sua zia, la muta volontaria che dà il titolo all’opera, e svelerà la psicologia di un popolo che non ha ancora interiorizzato l’idea di uguaglianza.
La figura distorta del mullah, violentatore e padrone eppure figura religiosa, l’importanza del giudizio della comunità, i pregiudizi nei confronti di tutto ciò che è diverso dalle norme di vita arabe sono tutti raccontati con estrema semplicità in questa storia. S’intravede una lieve speranza nella figura del giovane carceriere che sorveglia Fatemeh mostrandole una gentilezza che, seppur minima, è già moltissima considerato il rischio che corre: è probabile che l’autrice abbia voluto incarnare in questo ragazzo quello stesso sentimento di umanità che dovrebbe animare tutte le nuove generazioni, spingendole a ribellarsi contro questo genere di situazioni.
Lo stile è volutamente semplice, poiché l’autrice ha tenuto conto di star raccontando i pensieri dal carceredi una ragazza stanca, spaventata e confusa, il che dona ulteriore realismo. In taluni casi la semplicità dei periodi può disturbare, così come la crudezza di determinati passi, ma è un preciso genere letterario che bisognerebbe far leggere nelle scuole per maturare le coscienze.
È leggibile in una serata e non è certo un capolavoro, ma mostra realtà del ventunesimo secolo che noi uomini ‘sviluppati’ abbiamo il dovere di conoscere.

ALLEGRA GERMINARIO

martedì 16 febbraio 2010

Alda Merini



Nata a Milano il 21 Marzo del 1931, Alda Merini viene presto scoperta da Giancarlo Spagnoletti che ne apprezza da subito l’opera poetica che in una prima fase si interroga sinceramente su sé stessa e ciò dona una forza enorme alle sue liriche. Non vi è quasi separazione fra vissuto della poetessa e poesia: l’uno richiama l’altro. Allo stesso tempo il sogno, le epifanie e le allegorie si intrecciano a riferimenti di vita reale amalgamandosi perfettamente e conferendo ai componimenti immagini vertiginose che ci consentono di indagare nell’animo umano con una sorta di misticismo che solo l’opera della Merini può mostrarci in tutta la sua grandezza. Essa utilizza, inoltre,allegorie che rimandano alla cristianità, consentendoci un confronto con la schiacciante verità del nostro mondo. ”La terra santa” edita nel 1984 è esempio perfetto di questo tipo di simbolismo, già presente in precedenti opere della Merini. Questo lavoro,il più celebre della poetessa, nonché suo capolavoro, contiene nenie, poesie ed epifanie riferite al periodo che trascorse nel manicomio Paolo Pini dal 1967 al 1972, come lei stessa afferma nel successivo lavoro in prosa “L’altra verità. Diario di una diversa”, nel quale commenta la sua stessa opera. Nel manicomio, ove la voce del pazzo, sia essa portatrice di follia o di genialità, viene ridotta al silenzio, la poetessa viene spogliata di sé stessa attraverso l’esperienza della nudità che non è semplicemente fisica. O meglio lo è. Difatti venendo spogliati degli abiti, che ci rappresentano poiché nostro retaggio storico, perdiamo noi stessi, diventando solo oggetto clinico. Attraverso la visione di ‘noi’ come oggetti, l’altro, il medico, può per mezzo dell’ ’osservazione’ guarirci con una terapia. Il termine non è utilizzato a caso visto che la vista è da sempre utilizzata come senso peculiare dell’ambito scientifico, si pensi al celeberrimo racconto di E.T.A.Hoffmann ‘L’uomo della sabbia’ scritto durante il romanticismo tedesco nel quale è a causa della visione eccessivamente scientifica del mondo che il professor Spallanzani crea una bambola dai tratti umani, sinonimo della scienza che cerca di sostituire in laboratorio la natura da cui l’uomo moderno si allontana sempre più. Allo stesso modo,nel caso della poesia della Merini,in quanto caso clinico, il medico vedendoci solo come oggetto di osservazione in modo da non essere coinvolto con la nostra vicenda personale, antitesi del pensiero scientifico, veniamo restituiti a noi stessi partendo dal corpo. Dalla nudità. Chiaro, in questa magistrale opera della poetessa il sinonimo amore-peccato originale che porta verso il baratro della follia. Attraverso il manicomio possiamo ripartire da zero. Eppure esso è anche uno «spazio» dove affiorano momenti di «luce» e «inferno», intrinsechi nella natura umana (come afferma la stessa autrice), per questo la degenza in manicomio diventa sinonimo di deportazione. Come durante l’olocausto, immagine che verrà utilizzata nel componimento che porta l’omonimo nome dell’opera, proprio perché ci viene negata la nostra memoria storica per venire analizzati come oggetti. Queste crude immagini danno alla poesia di Alda Merini una forza inimmaginabile che ci conduce attraverso i ricordi della poetessa.
Ma la sua opera non fonda unicamente su episodi di dolore: è l’amore che viene celebrato. Esso è visto come agitato, difficile, come sentimento che scava nelle profondità del nostro essere per portare scompiglio; ma anche come messaggio salvifico, nostalgia e anche sinonimo di forza e sicurezza. L’amore è esaltato con allegorie bibliche, ma a volte che rimandano al mondo classico(come in “Titano,amori contro”) e che sempre ci rimandano alla vita della poetessa.
Lo stile della Merini è pressoché unico nella poesia contemporanea, proprio perché la poetessa spesso prediligeva l’improvvisazione alla scrittura dei suoi testi e spesso,infatti dettava a qualcuno le sue poesie in modo da poter dare uno slancio comunicativo maggiore rispetto alla poesia scritta di suo pugno. La predilezione per l’oralità palesa l’enfasi della creazione poetica della Merini che sempre utilizzò questa modalità compositiva: da ciò si comprenda il motivo per il quale molti dei suoi testi inediti non vennero mai pubblicati ma che tuttora sono reperibili presso l’università di Pavia per consultazione, era necessario separare alcuni componimenti di minor peso dai versi eccelsi.
La Merini ebbe un buon rapporto con la Puglia, in particolare con la città di Taranto ove dimorò dopo il matrimonio col poeta tarantino Michele Pierri nel 1983 dopo la morte del primo marito, Ettore Carniti. In questo periodo scrive “La gazza ladra” una raccolta di poesie contenente ritratti poetici di artisti di grande rilievo del mondo antico e moderno.
Successivamente torna nella città che gli ha dato i natali e che più di ogni altra ama: Milano, dove dopo un periodo di difficoltà riprende contatti col mondo letterario e a scrivere. Affronta temi quali la donna, vista al contempo con connotazioni erotiche e materne, ma anche l’ansia e la paura del futuro.
Le sue opere sono raccolte in vari volumi, ma le edizioni originali che costituiscono in libretti contenenti pochi componimenti a tiratura limitatissima (alcuni constano in non più di trenta copie per libretto) pubblicate dalla casa editrice Pulcinoelefante, sono veri e propri cimeli; alcuni editi negli anni novanta e contenenti aforismi, sono un lampante esempio di incontro fra poesia e arti belle, poiché illustrate da pittori o artisti di rilievo e costituiscono perlopiù un ‘unicum’. Non sappiamo se la produzione di volumi del genere sia stata una scelta editoriale o della stessa Merini, tuttavia fu sicuramente una scelta editoriale coraggiosa e di un enorme rilievo artistico.
Inutile enumerare i prestigiosi premi letterari conferiti alla Merini o la candidatura al premio Nobel per la poesia nel 2001, neppure questi fanno giustizia alla sua grandezza. Lei che riteneva il lavoro del poeta inutile di fronte regole sociali umane e che la vita non potesse mai risarcirli pienamente, che soleva ricopiare alcuni suoi componimenti su una storica macchina da scrivere senza nastro con lettere che picchiavano direttamente sulla carta, è stata di certo una delle poetesse più grandi e profonde che abbiano solcato il nostro tempo, baluardo di una poesia e di un’epoca che non tornerà più.

(Alda Merini si è spenta il primo novembre 2009).



STEFANO CARBONE


lunedì 15 febbraio 2010

Screamworks: love in theory and practice


Dopo tre anni di attesa gli HIM, acclamati iniziatori del love metal, ritornano con il loro settimo lavoro, ‘Screamworks: love in theory and practice, chapters 1-13’, che ormai da mesi veniva entusiasticamente pubblicizzato dai membri stessi della band come ‘il loro miglior album’; abbandonato il sound cupo e i testi decisamente melanconici di Venus Doom (2007), i rocker finnici hanno optato per un ritorno a quei suoni poppy e più delicati che avevano invece caratterizzato Razorblade Romance (2000) con un’attenzione decisamente maggiore alla creazione di melodie catturanti ed una ripetizione – talvolta a dire il vero eccessiva- dei ritornelli.
Se qualcuno dei fan si aspettava o perlomeno desiderava un ritorno alle origini primitive della band, per esempio all’ormai remoto Greatest lovesongs vol. 666, oppure un album sulla linea di ‘Venus Doom’, resterà deluso. Il tema centrale delle canzoni è sempre l’amore in tutta la sua intensità, con tutte le sue gioie ed i suoi dolori, perennemente unito ma anche legato in maniera indissolubile alla morte, portatore di paradiso e di inferno, ma la prospettiva dal quale lo si affronta è più ottimistica e luminosa: difatti non troviamo più il Valo che canta il suo dissanguarsi per motivi insani (Bleed Well, nda), ma c’è invece un Valo che intona in modo decisamente dolce e struggente ‘I am not afraid to admit I adore you’ (Scared to death, nda). Insomma, l’amore ancora spaventa, ancora fa male, ma s’intravede una speranza, un’elevazione rispetto a quel nero nel quale era immerso prima. Dal punto di vista puramente stilistico si presenta come un album energico, caratterizzato da un largo uso di batteria e di riff di chitarra, grintoso quindi non solo nei messaggi che dà ma anche nel sound.
Nel complesso non è affatto il miglior lavoro della band, primato che ritengo estraneo anche allo stesso ‘Razorblade romance’, ma ci sono nel mezzo delle vere e proprie perle di love metal ed i testi restano sempre un piacere da leggere nella loro profondità. Rilevante è stata l’influenza del produttore Matt Squire (The Used, Panic! At The Disco, All Time Low) conosciuto soprattutto per produrre power pop e per il suo talento nello scoprire underground bands.
Fra tutte le canzoni, sono notevoli ‘In venere veritas’, brano di apertura che spinge a non temere l’amore e le sue ferite insanabili, ‘Disarm me (with your loneliness)’, canzone dolcissima su un amore doloroso ma che si vorrebbe non avesse comunque fine, e ‘Shatter me with hope’, che incita a guardare avanti e ad amare sempre di più. Sorprendente è invece la track conclusiva, ‘The foreboding sense of impending happiness’, completamente diversa dalle precedenti, che colpisce per la sua cadenza e per l’effetto che produce l’unione della voce del Valo con gli strumenti musicali. È però dovuto un giudizio negativo su ‘Heartkiller’, inspiegabilmente scelta come singolo di apertura nonostante sia la più insipida delle tredici tracks, piacevole ad ascoltarsi per la sua musicalità ma di gran lunga inferiore ai loro standard.
Tutti i fan saranno lieti di notare come il tenore di vita più salutare adottato dal frontman, che ha finalmente ridotto il consumo di sigarette e superato la dipendenza dall’alcool, abbia influito in maniera notevolmente positiva sulla sua voce baritonale: Ville appare difatti di nuovo in grado di raggiungere tanto toni gravi quanto toni più alti senza la minima difficoltà, cosa che aveva evitato negli ultimi lavori e che gli aveva causato considerevoli difficoltà nei live, eppure questa sua grande conquista non è stata adeguatamente valorizzata in quanto solo in saltuari momenti dà prova della sua eccezionale estensione vocale recuperata.
Non è un ritorno in grande stile come forse la maggior parte di noi aveva sperato, bensì un album gradevole da ascoltare, che è la perfetta sintesi del love metal e del senso dell’heartagram (loro simbolo, nda), ottimo per spezzare la monotonia delle giornate e per farci sentire meno soli con le nostre emozioni.
Tutto sommato, quindi, sono sempre le nostre maestà infernali.

Voto: 7/10

ALLEGRA GERMINARIO

venerdì 12 febbraio 2010

La Boheme di Musetta


Il 17 gennaio scorso,presso il teatro Petruzzelli di Bari si è tenuta la rappresentazione della Bohème di Giacomo Puccini; con la regia di Boris Stetka e la direzione d’orchestra di Antonino Fogliani. Abbiamo intervistato Teresa Di Bari, che ha interpretato Musetta, che ci ha raccontato la sua esperienza professionale e personale.

→Come ha trovato l’esperienza lavorativa con Stetka?
[È stata un’esperienza molto positiva. Si è trattato di portare in scena un melodramma molto conosciuto, la cui vicenda essendo semplice e di facile comprensione letteraria, ha posto lo stesso spettatore in sintonia con il palcoscenico ed è stata per noi artisti naturale da interpretare. È la storia di giovani artisti che vivono le traversie anche dei giovani d’oggi, accomunati da un forte senso dell’amicizia, dell’amore e della speranza, che si trovano a dover affrontare un dolore più grande di loro: la morte di Mimì, evento che segnerà la loro storia spogliandoli dalla spensieratezza giovanile per dar posto ad un forte senso di umanità e di attaccamento alla vita; Stetka ha preferito un approccio tradizionale con l’opera; le sue indicazioni generali sono state la base sulla quale tutti ci siamo mossi in maniera spontanea e naturale.]

→Come mai la direzione artistica ha optato per l’utilizzo di due cast?
[Si opta per l’utilizzo di più cast in genere quando le recite di uno spettacolo sono consecutive. In questo modo i cantanti hanno la possibilità di riposarsi fra un’esibizione e l’altra; sarebbe più pesante fare diversamente, inoltre in questo modo si dà la possibilità a più artisti di lavorare]

→Come funziona la fase preparatoria di una rappresentazione di questo calibro?
[Si comincia con una riunione iniziale in cui il regista, espone la sua idea, la sua visione dell’opera;nel caso della Bohème la storia tratta di vite semplici, di sacrifici, cosa non estranea agli artisti; parla soprattutto di giovani aperti al mondo. Il regista ha scelto di ambientarla in epoca più recente rispetto alla versione originale. Il passo successivo è la discussione fra attori (cantanti) e regista sull’idea che ognuno si è fatto del personaggio da interpretare. Qui si vede la differenza fra regista e regista: se c’è apertura reciproca, uno scambio di pensieri liberi da schemi, si possono creare e far risaltare meglio i personaggi, come è avvenuto nel caso specifico. Poi vengono mostrati agli attori i bozzetti della scenografia per avere un’idea dell’ambientazione nella quale ci si muoverà, poiché all’inizio non si recita sul palcoscenico, ma in altre sale preposte alla regia per cui si proverà immaginandosi la scena. Si prova ad atti con la musica, eseguita da un pianista. In questa fase, nella quale non si è obbligati a cantare in voce, si provano i movimenti dei personaggi dietro indicazioni del regista, spesso in presenza del direttore d’orchestra. Le prove di regia si alternano con quelle musicali: il cast canterà in voce tutta l’opera, senza movimenti scenici, diretto dal direttore d’orchestra e con l’accompagnamento del pianoforte. In questa fase il direttore verificherà il lavoro preliminare musicale che ciascun cantante avrà fatto in fase di studio del proprio personaggio, e darà a ciascuno dei suggerimenti per superare certe difficoltà e per meglio interpretare ciò che l’autore ha scritto sulla partitura. Anche in questo caso può esserci uno scambio di opinioni. Dopo che il direttore avrà provato anche con l’orchestra si passerà alla fase successiva detta “italiana”. Questa prova verrà eseguita in palcoscenico e saranno coinvolti il cast, l’eventuale coro (preparato preliminarmente dal suo direttore), l’eventuale corpo di ballo e l’orchestra. Qui verranno testati gli equilibri acustici e quindi i rapporti fra orchestra e cantanti; grande importanza avrà il lavoro del direttore che cercherà di far emergere le voci sull’orchestra non a discapito dei colori e delle sfumature della stessa.
(A tale proposito va sottolineato che è importantissima l’armonia delle voci e quindi la scelta del cast da parte del direttore artistico. Purtroppo oggigiorno non sempre si affida ad un cantante un ruolo giusto per lui e quindi si finisce per non creare il giusto equilibrio fra le voci).]

Dopo “l’italiana” si passa alle prove di assieme, sempre in palcoscenico, dove c’è l’assemblaggio delle fasi sopra descritte; si prova l’opera un atto per volta e tutti sono coinvolti: cantanti, regista, coro, comparse, ballerini, orchestra, direttore, scenografia, macchinisti, elettricisti e pian piano luci.
Seguirà la prova d’assieme in costume e finalmente con l’antegenerale si proverà l’opera per intero con l’aggiunta del trucco che avrà molta importanza con la prova luci. I personaggi e la scena dovranno essere illuminati nella giusta misura tenendo ben presenti le giuste posizioni, le ombre che andranno a formarsi e quindi si studia bene il trucco giusto per ogni personaggio. Ora tutti sono coinvolti, anche la sartoria, i truccatori, parrucchieri. Spesso dopo l’antegenerale vi è “l’antepiano” un’ulteriore prova alla quale manca solo l’orchestra e che serve per ritoccare l’opera prima della generale. Prova generale che oggi rappresenta per noi la prima dell’opera, in quanto molto spesso la si esegue alla presenza di un pubblico oltretutto pagante. Un tempo il cantante in questa prova non sempre cantava in voce per riposarsi prima della prima ed essendo per l’appunto una prova di assestamento, lo stesso direttore non si creava il problema di fermare l’orchestra o i cantanti per correggere dei punti. Ora in presenza di un pubblico a pagamento è molto difficile che non si canti in voce o che ci si fermi per ripetere. Un tempo, se la generale era aperta al pubblico (peraltro non pagante), agli artisti veniva riconosciuto un compenso pari al cinquanta per cento del proprio cachet, mentre oggi si esibiscono gratuitamente .
Quando ci sono due cast ci si dà il cambio durante le prove. A volte il primo cast prova più del secondo; questa volta il secondo cast,del quale facevo parte, e il primo hanno provato alla stessa maniera.]

→Come si interpreta un personaggio dello spessore di Musetta?
[Ho cercato di giocare molto con la mia sensibilità. È un personaggio esuberante e civettuolo, ma allo stesso tempo ricco di sentimenti passionali e di umanità. Le piace sentirsi amata e oggetto del desiderio, ma il suo vero amore è uno solo: Marcello. Allo stesso tempo di fronte alla tragedia sa spogliarsi delle sue frivolezze per lasciare il posto ad una umanità e ad una generosità estreme. Per dar vita e verità ad un personaggio bisogna immergersi nel contesto. Grande importanza va data alle parole che si cantano e al loro significato. Allo stesso tempo bisogna conoscere il testo di ogni personaggio per poter reagire alle sue parole con giusta enfasi (il lavoro si complica quando si canta in lingua straniera). Bisogna lasciarsi andare, imparare il testo a memoria non basta. In tutto ciò non ci si deve far condizionare dalla tensione emotiva; anche se non ti abbandona mai dall’inizio dello spettacolo.]

→Il Petruzzelli è da sempre il simbolo della cultura barese. Cosa ha provato nel ritornare in un teatro tanto importante per la sua città come attrice?
[Un’emozione particolare. Si riapriva una pagina chiusa con il Petruzzelli. Tanto per me quanto per Bari. Conoscevo bene il “mio” teatro, avendoci lavorato da giovanissima come maschera, mentre ero studentessa di canto, per impregnarmi dell’aria d’arte che si respirava. Ed è proprio su quel palcoscenico che ho mosso i miei primissimi passi. Era il 1990, interpretai il ruolo di Kate Pinkerton nell’opera “Madame Butterfly” e a notarmi fu proprio l’attuale Sovraintendente Giandomenico Vaccari che mi spronò a continuare su questa via. Oggi il nostro teatro ha un vestito nuovo, ma di colpo è come se tutti questi anni non fossero passati. Spero che il “nostro” ‘Petruzzelli’ sia portato avanti tenendo presente un punto importantissimo: valorizzate le forze artistiche del territorio.]

→Ritiene che la sua città offra le giuste occasioni per chi come lei sceglie di dedicare la sua vita allo spettacolo?
[È difficile dare una risposta. Bisognerebbe chiederlo a chi gestisce il settore. Certo è che la crisi economica ha colpito duramente soprattutto lo spettacolo con l’aumento dei tagli. Ciò significa meno produzioni, meno recite e meno forze che lavorano;. Non bisogna dimenticare che dietro la macchina dello spettacolo ruotano una marea di figure professionali che hanno bisogno di lavorare per vivere.]

→Com’è la vita per una cantante lirica?
[Dipende da come la si affronta. É una questione di testa. Se ti fai prendere da questo mondo ti accompagnerà per tutta la vita, ma non è una professione facile; è un susseguirsi di gioie e di pene, le difficoltà sono sempre dietro l’angolo. E’ una sfida continua con se stessi, si pensa sempre di non aver raggiunto l’obiettivo finale come lo si avrebbe voluto e si lavora fino all’ultimo momento prima dello spettacolo. Saranno il contatto col pubblico, le emozioni che gli avrai donato, i suoi applausi a ripagarti dei sacrifici fatti. Lo studio quotidiano è essenziale anche se non si lavora, come anche andare a “sciacquare i panni sporchi”, come si suol dire, dal proprio allenatore di fiducia dopo ogni lavoro. E’ come fare la messa a punto ad una macchina. Il cantante è come un atleta, non può mai smettere. Tutto ciò comporta dei costi che non ci si può permettere di sostenere se non si lavora e purtroppo si lavora sempre meno. I teatri chiudono, le produzioni diminuiscono e c’è sempre meno gente (italiana) che lavora nei nostri teatri. Mi auguro che il governo italiano capisca che la cultura è vita, è energia, è forza, è ricchezza e senza di lei non andremmo da nessuna parte.]

STEFANO CARBONE

(ringraziamo cordialmente Teresa Di Bari per l'aiuto e la fiducia)

Funeral


Funeral di ester grossi @fabrica fluxus




Dal 22 gennaio al 19 Febbraio, Fabrica Fluxus espone la mostra “Funeral” della giovanissima artista abruzzese Ester Grossi,

artista del mese di Novembre su ARTEINGENUA, e promossa in Italia e all'estero dal MUSAE (museo urbano sperimentale di arte emergente).

Funeral è la rappresentazione di un rito funebre osservato spostando l'attenzione sulle persone partecipanti che, come spiega Chiara Ronchini, (curatrice della mostra insieme al collettivo di Fabrica Fluxus) “si ritrovano inevitabilmente a riflettere da soli con la propria idea di morte”.

I ritratti esposti sono essenziali, dai tratti decisi e da forti contrasti dal bianco al nero e la netta separazione tra un cielo azzuro terso e una distesa di verde.

Paura, tristezza e senso di smarrimento. Questa è l'idea generale che traspare, resa maggiormente dal sottofondo musicale dell'artista di origine canadese His Clancyness composto appositamente per la mostra immaginando i vari momenti del rito, come la camminata nel cimitero o la bara che scivola nella terra.

Candele, buste da lettera nere sigillate con la cera lacca, tende e luci tenui. Dettagli che contribuiscono a ricreare la stessa atmosfera ricercata dall'artista e che vi renderanno partecipi a tutti gli effetti della mostra. Da non perdere l'esibizione del duo Murder.

VALENTINA CROCITTO

ORARI: LUN-SAB 10.30/13.30 -16.30/20.30
INFO E CONTATTI: Info: 080-5236319

e-mail: fabricafluxus@gmail.com

http://www.fabricafluxus.com/
www.myspace.com/estergrossi




giovedì 11 febbraio 2010

Editoriale febbraio 2010

Spesso ci guardiamo intorno nei luoghi ove solitamente passiamo la maggior parte della nostra vita chiedendoci se è necessario che le cose, le persone, le idee si debbano disperdere vorticosamente nel mare di banalità e illusioni di cui siamo giornalmente circondati. La televisione, i giornali, i discorsi di tutti i giorni continuano imperterriti a cercare di venderci stereotipi e modelli ideali che rasentano la psicopatia sociale; sia in ambito politico che professionale. Da questa presa di coscienza è nato il progetto da parte di alcuni studenti delle facoltà più disparate, di trovare un modo per diffondere e valorizzare la cultura locale e non, in tutte le sue forme espressive, in modo di dare anche voce e spazio agli artisti emergenti. Nella nostra pseudo-società dove basta creare un po' di scompiglio mediatico per “esistere”, o dove l’ignoranza e il disinteresse per tutto ciò che è realmente bello (nel senso classico del termine) come può esserlo solo l’arte, cedono il passo al volgare opinionismo spicciolo che sfocia in ridicole teorie, ahimè anche troppo popolari di questi tempi, ci si chiede come poter porre rimedio a tutto questo osceno nulla culturale. La risposta è nata da questa collaborazione di cui siamo orgogliosi ideatori ed esecutori e che si spera diventi una piccola luce di speranza per chi crede che la vita vada aldilà dell’arrivismo collettivo per il raggiungimento di un mero mercato dove si può vendere sé stessi e le proprie idee. Pensare più all’arte rispetto che alle tristezza economiche che la nostra società ci spinge a desiderare quasi patologicamente, sarebbe forse un ottimo modo per risollevare l’andazzo di quest’epoca.
Dunque sottoponiamo e condividiamo le nostre conoscenze e opinioni che speriamo aiutino ognuno ad accrescere se stesso, senza l’imbarazzo che creano le istituzioni scolastiche in chi cerca di andare al di là della semplice apparenza.

Perché l’informazione e la conoscenza non sarà mai motivo di imbarazzo per noi.

STEFANO CARBONE